Breve storia della moneta

Questa storia potrebbe iniziare così: c’era una volta il baratto. Scambiare beni o servizi contro altri beni o servizi è un’attività tipica di società caratterizzate da una ridotta frequenza nelle transazioni e può rivelarsi un affare complicato. Perché chi cede un bene può non desiderare il bene che gli viene proposto in cambio. E a questo punto non gli restano che due alternative: rifiutare lo scambio oppure accettare il bene proposto per poi scambiarlo con altri fino ad ottenere quanto desidera.

Questa operazione complessa ostacola la compravendita di beni e servizi. Per questo l’inventiva umana ha ideato un “comune denominatore”, un bene che fosse accettato da tutti, che avesse un valore definito, abbastanza piccolo e sufficientemente stabile nel tempo, che non deperisse e fosse facilmente trasportabile.

Quella che poi verrà chiamata moneta. Un nome che secondo i più viene dal tempio eretto nel Campidoglio a Giunone Moneta – così detta da monere avvertire, perché si credeva che le oche sacre alla dea avessero avvertito, con i loro starnazzamenti, l’ex-console Marco Manlio dell’attacco dei Galli di Brenno. Verso il 269 a.C., in prossimità di questo tempio viene edificata la zecca romana, posta sotto la protezione della Dea Moneta.

Altri ritengono che la terminazione -eta sia più greca che latina, come in poeta, cometa e pianeta, e crede che la parola moneta tragga origine direttamente dal greco monyter ovvero indicatore, designatore, monitore.

Le monete

Questo ruolo di indicatore di valore è sempre stato svolto dall’oro e dagli altri metalli preziosi, perché era generalmente accettato da tutti i popoli e tenuto in grande considerazione sia per la sua scarsità che per la sua bellezza.

Presso altri popoli e in altre epoche sono stati utilizzati altri beni, come il sale – utilizzato dai Baruya della Nuova Guinea –, le conchiglie – utilizzate in molte società africane –, o la pietra. In Micronesia, sono tuttora usate come simbolo di potere economico delle tribù delle pietre di basalto provenienti da Palau.

I metalli vengono utilizzati nella forma di lingotti o sbarre – o in polvere. Ovviamente chi riceve questa forma di pagamento deve accertarsi che esso abbia il peso dichiarato e la purezza dichiarata. Per evitare questi inconvenienti viene inventato il conio: il re, l’imperatore o un’autorità equivalente garantisce la quantità di metallo contenuta ed il suo grado di purezza.

La tradizione vuole che la moneta sia stata coniata per la prima volta da Creso, re di Lidia, nel VII secolo a.C. Nel secolo successivo l’uso della moneta si sarebbe esteso all’Impero Persiano ed alle altre città greche – e da loro è poi arrivato nel Mediterraneo Occidentale. La sua espansione si è completata con  Alessandro Magno e le sue conquiste.

Ad un certo punto però, le monete iniziano ad avere meno metallo di quello dichiarato perché la zecca tende a coniare monete di bassa lega – e con un contenuto di metallo sempre minore (l’aes signatum romano all’epoca delle guerre puniche era fatto da 1/3 di chilo di rame, 150 anni dopo era diventato una moneta di poco più di trenta grammi di rame. Altri cento anni più tardi, era ridotto ad una monetina di qualche grammo).

Ai prelievi dell’autorità centrale bisogna poi aggiungere le “tosature”, ovvero la pratica con cui si asporta parte della moneta allo scopo di impossessarsi di metallo prezioso. Queste diminuzioni del valore intrinseco della moneta, secondo alcuni avrebbero causato una diminuzione del potere d’acquisto della moneta – la famigerata inflazione.  

Altri invece sostengono che l’inflazione non nasca dal fatto che le monete hanno un minore contenuto aureo, ma piuttosto che venga prodotto da una quantità eccessiva di moneta rispetto alla produzione di beni. E citano a questo proposito un esempio significativo. La “rivoluzione dei prezzi” – ovvero il progressivo aumento dei prezzi di quasi tutti i beni – che investe l’Europa nel Cinquecento e causata dall’afflusso dall’America di oro e d’argento, cioè di moneta buona emessa dalla Spagna coloniale (non di moneta cattiva priva di contenuto intrinseco). L’unica spiegazione per quel fenomeno è che le monete d’oro e d’argento fossero in quantità eccessiva rispetto ai beni.

Le banconote e la nascita delle banche

Spostare monete metalliche comporta rilevanti problemi di sicurezza. Ai rischi di furti bisogna poi aggiungere quelli collegati alla perdita del capitale –  per esempio se li trasporto con una nave c’è il rischio che affondi. Per questo col tempo si sono sviluppati strumenti di pagamento cartacei.

I primi a pensarci sono stati i cinesi con l’imperatore Hien Tsung nell’806 dC,  imitati/copiati nel Medioevo dagli orafi italiani e fiamminghi che, a fronte dei depositi in oro effettuati presso di loro, iniziano ad emettere titoli rappresentativi di quel credito.

Il possessore di quel titolo poteva usare queste “lettere di cambio” con altri orafi – legati da rapporti d’affari con il primo – o come strumento di pagamento vero e proprio – a condizione che il venditore sia convinto della solvibilità del soggetto emittente e possa verificare la veridicità della lettera.

Poco per volta gli orafi si rendono conto che ogni giorno solo una parte dell’oro depositato viene ritirato – e spesso altri clienti provvedono ad aumentare la quantità di metallo pregiato presente nei loro forzieri. Il saldo tra depositi e ritiri è in genere positivo, perché con il passare del tempo la gente utilizza con maggiore frequenza le note di banco lasciando il proprio oro nei forzieri dell’orafo, e perciò una parte di questo metallo prezioso può essere utilizzato per fare investimenti fruttiferi.

Gli orafi diventano così banchieri, perché iniziano a prestare e stampare altre note di banco. Dopo l’operazione di prestito, le note di deposito in circolazione hanno un valore complessivo in oro superiore al metallo effettivamente  depositato nei forzieri.

Con questa operazione l’orafo-banchiere corre il rischio di non poter rimborsare tutti gli aventi diritto se si presentano per la riscossione nello stesso giorno. E questo rischio è tanto più elevato quanto maggiori sono i prestiti effettuati “senza copertura”. Se vuole contenere questo rischio allora la quantità di note di deposito emesse non può eccedere di molto le riserve di oro depositate. Inoltre, il rischio di non poter far fronte alle richieste di rimborso è inversamente proporzionale alla sua reputazione. Se in giro dovesse diffondersi la voce che ha prestato troppo oro “senza copertura”, allora tutti i possessori di note di deposito da lui firmate si affretteranno a ritirare l’oro di cui sono titolari e lui risulterebbe insolvente.

Con la nascita della banca vede così la luce anche la moneta fiduciaria, ovvero c’è chi accetta in pagamento dei “pezzi di carta” perché crede che, se si presenterà dal banchiere che li ha emessi, riceverà in cambio l’oro che gli spetta.

I primi Banchi pubblici nascono invece in Spagna, a Barcellona e a Valencia, come organi di tesoreria municipale. Nella penisola italiana a Genova nasceil Banco di San Giorgio, il primo istituto al mondo con i connotati della banca moderna. All’inizio del 1400 si occupa già di fiscalità e debito pubblico (come una Banca centrale) oltre che di raccolta del risparmio.

La sua organizzazione è gia quella delle moderne società per azioni, con un consiglio di amministrazione, un’assemblea dei soci, la trasferibilità delle sue quote sociali. Il Banco si trova a gestire gran parte dei proventi del fisco, svolge attività bancaria, e si occupare pure di amministrare estese porzioni del territorio statale. Al suo interno nascono buona parte delle tecniche finanziarie che verranno poi utilizzati da istituti di mezzo mondo.

Il primo Banco di pietà nasce a Perugia nel 1462, seguito dieci anni dopo dal Monte dei Paschi, creato per volere della Repubblica di Siena per sostenere le classi meno abbienti, mediante la concessione di piccoli crediti su pegno.

La nascita degli Stati moderni

Lo sviluppo del settore bancario quando acquisisce un altro passo quando gli Stati iniziano ad uitlizzare le banconote al posto delle monete. La prima esperienza risale alla Svezia del 1661 con il Banco di Stoccolma di Johan Palmstruch.

In quel momento nel paese c’è carenza di denaro metallico. Le monete in rame non circolano più, perché il loro valore intrinseco supera quello nominale. Lo stato non riesce a coniare grandi quantità di monete in metalli non nobili. A questo punto arriva la Kreditivsedlar – ovvero carta di credito – emessa da Palmstruch in vari tagli. Queste prime banconote hanno tutte le caratteristiche che sono ancora riscontrabili nella cartamoneta attuale, come la numerazione di serie, le firme che conferiscono garanzia del rimborso e le misure di sicurezza contro le falsificazioni.

La banconota è sostituibile, in qualsiasi momento, con le monete d’oro e d’argento. L’idea ha un grande successo ma la banca inizia a prestare più di quello che può permettersi, un evento che porta al collasso dell’istituto nel 1668.

Qualche anno dopo le novità presentate in Svezia vengono riprese in Gran Bretagna nel 1694. All’epoca regnano sul paese Guglielmo III d’Orange insieme a Maria II, la figlia protestante di Giacomo II Stuart. Il nuovo re d’Inghilterra è impegnato in un grande sforzo bellico contro la Francia del Re Sole. Le spese militari superano il 74% dell’intera spesa pubblica e i soldi sembrano non bastare mai.

Difficile aumentare ancora la già elevata pressione fiscale, per cui Guglielmo si fa convincere dalle proposte di un banchiere scozzese, William Paterson – capofila di una cordata di banchieri e appoggiato dal tesoriere dello Scacchiere, Lord Montague.

In cambio di un prestito di 1,2 milioni di sterline, oltre ad incassare gli interessi dell’8% sulla somma prestata, Paterson e i suoi soci vengono autorizzati ad emettere banconote per un importo pari al prestito concesso al governo. In realtà, vengono stampate 1.750.000 sterline – contro una riserva di cassa di sole 36.000 sterline d’oro. Da allora, la Banca d’Inghilterra sarà – da sola o insieme ad altri – istituto d’emissione del Regno Unito, pur restando una banca privata fino al 1946.

Dalla Banca d’Inghilterra alla Repubblica di Weimar

Come potrete immaginare, in più di un’occasione, le autorità centrali abusano della moneta cartacea… Durante la Rivoluzione francese, il governo della nascente  repubblica utilizza gli assignat come cartamoneta – in origine si trattano di titoli rappresentativi di prestiti – per finanziare le spese correnti.

E così nel 1796 circolano circa 45 miliardi di livre di assegnati – all’inizio era previsto di emettere 3 miliardi di livre di questi titoli, l’equivalente del valore dei beni del clero confiscati. Ovviamente la moltiplicazione delle sue emissioni provoca una forte inflazione – si dice del 10.000 per cento –, ma la loro invenzione probabilmente evita il fallimento della neonata repubblica.

La circolazione delle banconote raggiunge tutti i paesi europei sulla scia delle conquiste di Napoleone, che impone in tutto il continente l’uso di carta moneta. Nel XIX secolo però, la moneta cartacea può ancora essere convertita in oro. Nei momenti di crisi però, alcuni paesi arrivano a stabilire il corso forzoso, cioè la sospensione ex lege della convertibilità.

Ciò avviene ad esempio in Gran Bretagna durante le guerre napoleoniche. La Banca d’Inghilterra, con l’autorizzazione del governo, si rifiuta di pagare oro e argento in cambio delle proprie banconote. Il Paese non ha più alcun standard monetario, ma l’economia ha continuato a funzionare come se nulla fosse.

Il caso più noto di abuso nella produzione di moneta cartacea è probabilmente quello della repubblica di Weimar. Le nazioni vincitrici della Grande Guerra decidono di addebitare alla Germania i costi del conflitto da loro sostenuti. E il nuovo governo paga questi debiti stampando banconote.

Trentamila persone lavorano giorno e notte nelle 30 fabbriche che producono carta e nelle 133 aziende che stampano marchi – per accelerare la produzione, le banconote vengono stampate da un solo lato. Complessivamente la banca centrale tedesca emette 524 trilioni di marchi – un trilione = 1.000.000.000.000 –, ed altri 700 vengono fatti stampare da comuni ed imprese per fronteggiare la crisi.

Il risultato finale della stampa di tutta questa cartamoneta si può riassumere in poche cifre: nel dicembre del 1923 un uovo costa 320 miliardi di marchi, un litro di latte 360 miliardi e mezzo chilo di burro 2.800 miliardi.

A rimetterci sono soprattutto i più deboli e chi detiene un reddito fisso – come i lavoratori dipendenti (nel 1923 il governo tedesco è costretto a pagare lo stipendio quotidianamente ai dipendenti, i quali s’affrettano a comperare qualsiasi merce prima di vedersi letteralmente sparire il denaro tra le mani).

La situazione si normalizza con l’introduzione del Rentenmark (RM) al posto del Papiermark. Visto che non c’era oro per garantire l’emissione della moneta, vengono ipotecate terre e merci industriali per l’equivalente di 3,2 miliardi di Rentenmark. Il suo cambio è pari a 1 $ = 4,2 RM e di un 1 RM = 1012 Papiermark.

Il Gold standard e gli accordi di Bretton Woods

L’esempio della Banca d’Inghilterra che ho citato all’inizio del precedente paragrafo non rappresenta un caso isolato: la convertibilità della cartamoneta in oro che caratterizza il sistema aureo (o gold standard) fu fin da subito un fatto formale. Il reale rapporto tra quantità di denaro stampata e disponibilità aurea presente nei depositi della banca diventa presto un segreto da custodire gelosamente.

L’oro continua ad essere utilizzato per i pagamenti internazionali. E quindi i paesi con un saldo attivo della bilancia commerciale – ovvero con le esportazioni che superano le importazioni –, vedono crescere le loro riserve del prezioso elemento. Per questo i paesi europei cercano di rendere più competitive le proprie esportazioni riducendo i prezzi delle loro merci. Risultato che hanno perseguito tagliando i costi, e quindi i salari.

I paesi finiscono per non sostenere gli effetti di questa politica deflazionistica: l’Inghilterra è il primo paese nel 1931 a sospendere la convertibilità in oro della sterlina, seguito a ruota dagli altri stati europei. Il risultato finale è una crisi monetaria che arriva quasi a cancellare il commercio internazionale – un effetto a cui ha portato il suo contributo anche il crack di Wall Street dell’ottobre 1929 e la successiva depressione.

Tra l’1 ed il 22 luglio 1944 – la seconda guerra mondiale non era ancora finita  ma si sapeva come sarebbe andata a finire –, 730 delegati di 44 nazioni alleate si riunirono al Mount Washington Hotel, nella città di Bretton Woods, per ricostruire il sistema monetario e finanziario internazionale.

Il risultato delle loro discussioni sono gli accordi che prendono il nome dalla cittadina in cui vengono sottoscritti. Il delegato inglese John Maynard Keynes  propone l’adozione del Bancor, una moneta internazionale di conto definita in oro, con una parità che non avrebbe dovuto essere definitiva, ma prontamente modificabile per contrastare le oscillazioni della quotazione del metallo pregiato.

La sua posizione però finisce in minoranza. Gli Stati Uniti hanno vinto la guerra e vogliono mostrare la loro egemonia anche in campo finanziario. Per questo nasce il Gold Exchange Standard con il dollaro come unica valuta convertibile in oro – in base al cambio di 35 dollari contro un oncia del prezioso metallo. Le altre valute hanno un cambio fisso rispetto alla moneta statunitense – viene ammessa una banda di oscillazione (intorno all’1%).

Il dollaro divenne la valuta di riserva per tutti gli stati mondiali, e infatti l’80% delle riserve valutarie mondiali furono rappresentate dal biglietto verde americano. E per controllare la liquidità internazionale ed aiutare i paesi in difficoltà con la bilancia dei pagamenti venne creato il Fondo Monetario Internazionale. I paesi che volevano far parte dell’organizzazione internazionale dovevano versare una quota in oro e una in valuta nazionale sulla base delle quali veniva deciso il suo peso decisionale.

Il sistema resta in equilibrio perché gli Stati Uniti finanziano il proprio deficit della bilancia dei pagamenti attirando risorse dai paesi – come Germania Ovest e Giappone – che presentano un cronico surplus della bilancia dei pagamenti e con la quale gli Stati Uniti mantengono un cambio fisso ad una parità prestabilita.

La convertibilità in oro di questo sistema di cambi è molto relativa, perché possono effettuare questa operazione solo le banche centrali. Comunque rappresenta un rischio – che l’economista belga Robert Triffin ha evidenziato nel 1960 –, nel momento in cui i possessori esteri avessero preso la decisione di pretendere l’oro invece di detenere dollari.

Esattamente quello che avviene alla fine degli anni sessanta. Il forte aumento della spesa pubblica e del debito pubblico – causato in gran parte dalla guerra del Vietnam – è stato finanziato in parte stampando dollari, e così le banche centrali straniere finiscono per detenere riserve nella moneta Usa per 36.000 miliardi di dollari, circa tre volte il valore delle riserve auree americane.

Quando iniziano a bussare con insistenza ai forzieri di Fort Knox per cambiare i dollari in oro, agli Usa non resta che una scelta: il 15 agosto 1971, a Camp David, il presidente Richard Nixon, sospende la convertibilità del dollaro in oro.

Il sistema monetario dopo la fine degli accordi di Bretton Woods

Con la fine del sistema di Bretton Woods il mondo entra in un sistema di cambi flessibili. Le oscillazioni dei tassi di cambio tra due valute – e quindi il valore di una moneta – diventano sempre più il prodotto dei mercati e sempre meno dall’intervento delle banche centrali.

La scelta del cambio flessibile a volte è un obbligo, perché gli attacchi speculativi si concentrano contro i tassi di cambio che non erano più in linea con i fondamentali dell’economia – causando gravi perdite di ricchezza ai paesi colpiti.

Ne sa qualcosa anche l’Italia finita sotto l’attacco (insieme alla sterlina) del finanziere George Soros nel settembre del 1992. La sua scelta di vendere lire allo scoperto comprando dollari costringe la Banca d’Italia a dilapidare 48 miliardi di dollari di riserve per sostenere il cambio, e porta ad una svalutazione della nostra moneta del 30% e l’estromissione della lira – e della sterlina – dal sistema monetario europeo (Sme). Il rendimento dei titoli di stato schizza all’insù: venerdì 11 settembre i tassi sul mercato monetario arrivano a sfiorare il 40%.

Il governo italiano è  costretto  a varare una delle più pesanti manovre finanziarie della sua storia – circa 93.000 miliardi di lire – in cui compare per la prima volta un’imposta sulla casa – l’Ici. Tutto inutile. Dall’attacco alla sterlina, il finanziere di origine ungherese si stima realizzò un guadagno di 1,1 miliardi di dollari.

Colpa anche di una politica miope – il cambio della lira è sopravvalutato, perché da cinque anni si è agganciata al marco senza poterselo permettere – e dell’egoismo europeo – la Bundesbank dichiara che non avrebbe aiutato la lira (vi ricorda qualcosa?) e con le sue dichiarazioni scioglie gli ultimi dubbi di Soros.

Ma la maggiore responsabilità della politica è un’altra: per il finanziere ungherese “Gli speculatori fanno il loro lavoro, non hanno colpe. Queste semmai competono ai legislatori che permettono che le speculazioni avvengano. Gli speculatori sono solo i messaggeri di cattive notizie”.

Cosa ci aspetterà il futuro è difficile dirlo oggi.

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