Questo racconto fa parte di un libretto che ho scritto sulla fine di Pasolini che potete trovare qui.
Dopo l’autopsia, il corpo macellato del poeta viene restituito alla famiglia. La salma viene traslata nella Casa della cultura in via della Colonna Antonina, dove viene allestita la camera ardente. Siamo vicini a piazza Venezia e Campo de’ Fiori e il colore dominante è il rosso dei drappi comunisti, anche se davanti al feretro ci sono più genuflessioni e segni della croce che pugni chiusi.
Per qualche minuto la bara viene parzialmente aperta e l’inviato di “Paese Sera” scatta alcune foto che verranno poi pubblicate dal suo giornale. Trova il volto di Pasolini “color cenere”, “senza tracce dell’ultima violenza”.
Franco Citti inizia il suo turno di veglia mentre il fratello Sergio depone la maglia numero undici di Pasolini sulla bara. Visto l’amore del poeta per il calcio nessuno considera quel gesto fuori luogo. Arrivano anche Bernardo Bertolucci, Antonello Trombadori, Francesco Rosi, Elio Petri, Graziella Chiarcossi. Davanti alla cugina di Pasolini Ninetto Davoli scoppia a piangere. Arriva anche Enrico Berlinguer, ma si ferma poco e firme diligentemente il registro delle presenze.
Con il passare delle ore una folla sempre più compatta preme per entrare nella camera ardente e porgere l’ultimo saluto al poeta. La giornalista dell’Unità che scriverà il giorno dopo sull’Unità della cerimonia dedicata al poeta, cita il commento, dal valore di un’epigrafe, pronunciato da un uomo di Primavalle: “E’ tutta gente consapevole di aver perduto un amico”. Per la stessa cronista tra chi porge l’estremo saluto non ci sarebbe “l’aspetto di curiosità gratuita e impietosa degli anonimi che accorrono sulla scia del fatto di cronaca nera tanto più clamoroso per la notorietà della vittima”. C’è un dolore sincero che si può avvertire stando tra questa variopinta massa di uomini e donne, oltre ad una specie di ansia collettiva di capire il senso di una vita e insieme il senso di una morte.
C’è anche chi protesta in modo plateale. Un gesuita di mezza età viene sorpreso in centro mentre sta scrivendo “Pig” sui manifesti che annunciano la morte di Pasolini. Ha già scarabocchiato altri insulti come “Coprolalo”, “Perverso” e “Blasfemo”.
Alle 17 inizia il corteo: prima escono le corone di fiori e poi il feretro, portato a spalla da Bernardo Bertolucci, Antonello Trombadori, Franco e Sergio Cittì, Ninetto Davoli e Enzo Cerami. Dietro alla bara la nipote Graziella, il cugino Nico Naldini, altri familiari e gli amici.
Tra la gente comune che segue le spoglie mortali del poeta ci sono diverse personalità del cinema e della letteratura italiana, come Cesare Zavattini, Sergio Amidei, Gillo Pontecorvo, Alberto Lattuada, Ugo Tognazzi, Lina Wertmuller, Damiani, Lamberto Maggiorana il protagonista di «Ladro di biciclette», Adriana Asti, Fabio Mauri, Vittorio Sermenti, Enzo Siciliano, Alberto Arbasino, Marco Bellocchio, Beppe Novello, il regista che a Torino sta mettendo in scena Affabulazione di Pasolini. Ci sono anche diversi rappresentanti del PCI, della FGCI e della CGIL, come Gerardo Chiaromonte, Emanuele Macaluso e Giorgio Napolitano.
Alla prima apparizione su largo Arenula scoppia un applauso spontaneo, lunghissimo, in crescendo. Dopo l’applauso gli unici rumori che si sentono sono quelli dei tacchi delle scarpe e gli scricchiolii di finestre e persiane. Nell’aria non c’è odore d’incenso ma di caldarroste.
Vista la calca, gli uomini che sorreggono la bara non possono fare altro che proseguire lentamente. Non c’è un vero e proprio servizio d’ordine ad arginare la folla, ci sono solo alcuni volontari della Fgci che provano a fare qualcosa. Molti cercano di toccare il legno del feretro, come se fosse taumaturgico, come se la poesia potesse avere anche vie soprannaturali, salvifiche. C’è chi ha descritto la bara come una barchetta in mezzo alla tempesta. Bernardo Bertolucci in seguito ha raccontato di aver temuto che il feretro potesse sfuggirgli dalle mani.
La destinazione finale del corteo è Campo de’ Fiori, dove accanto al cinema Farnese è stato allestito un palco di legno. La piazza accoglie chi ha voluto porgere l’ultimo saluto al poeta con il suo solito abito. Il mercato è finito da poco, e quindi ci sono ancora alcuni carretti e delle bancarelle accatastate. I sampietrini, il lastricato tipico del centro storico di Roma sono umidi, non perché ha piovuto – il tempo è stato clemente e non fa freddo anche se è già sera – ma perché c’è chi ha cercato di lavare via l’odore del pesce.
Quando gli oratori iniziano a parlare la piazza si è riempita tanto che il palco quasi non si vede più. Il primo a parlare è Alberto Moravia, che ricerca con angoscia il senso della morte di Pasolini, “perché noi vogliamo che le cose abbiano un significato che non siano inerti”, e piange ciò che lui, e noi tutti, abbiamo perso con la sua scomparsa: l’amico, il poeta, il simile e il diverso, il testimone che voleva provocare reazioni benefiche nel corpo inerte della società, il romanziere, il regista, il saggista.
La sua orazione è l’unica che è arrivata fino a noi. “Poi abbiamo perduto anche il simile. Cosa intendo per simile: intendo che lui ha fatto delle cose, si è allineato nella nostra cultura, accanto ai nostri maggiori scrittori, ai nostri maggiori registi. In questo era simile, cioè era un elemento prezioso di qualsiasi società. Qualsiasi società sarebbe stata contenta di avere Pasolini tra le sue file. Abbiamo perso prima di tutto un poeta. E poeti non ce ne sono tanti nel mondo, ne nascono tre o quattro soltanto in un secolo (applausi). Quando sarà finito questo secolo, Pasolini sarà tra i pochissimi che conteranno come poeta. Il poeta dovrebbe esser sacro.
Poi abbiamo perduto anche un romanziere. Il romanziere delle borgate, il romanziere dei ragazzi di vita, della vita violenta. Un romanziere che aveva scritto due romanzi anch’essi esemplari, nei quali, accanto a un’osservazione molto realistica, c’erano delle soluzioni linguistiche, delle soluzioni, diciamo così, tra il dialetto e la lingua italiana che erano anch’esse stranamente nuove.
Poi abbiamo perso un regista che tutti conoscono, no? Pasolini fu la lezione dei giapponesi, fu la lezione del cinema migliore europeo. Ha fatto poi una serie di film alcuni dei quali sono così ispirati a quel suo realismo che io chiamo romanico, cioè un realismo arcaico, un realismo gentile e al tempo stesso misterioso. Altri ispirati ai miti, il mito di Edipo per esempio. Poi ancora al grande suo mito, il mito del sottoproletariato, il quale era portatore, secondo Pasolini, e questo l’ha spiegato in tutti i suoi film e i suoi romanzi, era portatore di una umiltà che potrebbe riportare a una palingenesi del mondo.
Questo mito lui l’ha illustrato anche per esempio nell’ultimo film, che si chiama Il fiore delle Mille e una notte. Lì si vede come questo schema del sottoproletariato, questo schema dell’umiltà dei poveri, Pasolini l’aveva esteso in fondo a tutto il Terzo Mondo e alla cultura del Terzo Mondo. Infine, abbiamo perduto un saggista. Vorrei dire due parole particolari su questo saggista. Ora il saggista era anche quello una nuova attività, e a cosa corrispondeva questa nuova attività? Corrispondeva al suo interesse civico e qui si viene a un altro aspetto di Pasolini. Benché fosse uno scrittore con dei fermenti decadentistici, benché fosse estremamente raffinato e manieristico, tuttavia aveva un’attenzione per i problemi sociali del suo paese, per lo sviluppo di questo paese. Un’attenzione diciamolo pure patriottica che pochi hanno avuto. Tutto questo l’Italia l’ha perduto, ha perduto un uomo prezioso che era nel fiore degli anni. Ora io dico: quest’immagine che mi perseguita, di Pasolini che fugge a piedi, è inseguito da qualche cosa che non ha volto e che è quello che l’ha ucciso, è un’immagine emblematica di questo Paese. Cioè un’immagine che deve spingerci a migliorare questo Paese come Pasolini stesso avrebbe voluto”.
La folla è ancora in piazza quando un altoparlante trasmette un brano del discorso di Pasolini al festival dei giovani comunisti al Pincio e il feretro con la sua salma parte per Casarsa. Al suo arrivo, verso le due di notte, c’è ancora una folla ad aspettare il poeta. La sua bara viene vegliata fino al mattino.