Rosario è la terza più grande città dell’Argentina. Molti la conoscono perché ci sono nati Ernesto Che Guevara e Messi. Forse qualcun’altro la conosce perché è anche la Cuna de la Banderas, ovvero la Culla della Bandiera, perché qui, sulle rive del rio Paranà, il generale di origini liguri Manuel Belgrano ha creato la bandiera albiceleste con al centro il sole di maggio – una rappresentazione di Inti, il dio del sole per gli Inca.
Oggi mi occupo di questa città per altri motivi. Come spiegano altri due suoi figli illlustri, “Essere di Rosario significa essere argentini in maniera esagerata” – Copyright Jorge Valdano – e “Tutto qui è calcio” – Copyright Marcelo El Loco Bielsa. La città vive della rivalità sportiva tra Rosario Central e Newell’s Old Boys – si narra che l’unica volta in cui i tifosi delle 2 squadre si sono uniti fu per bruciare la sede di un club locale di tifosi del San Lorenzo, perché come diceva uno di loro “O sei tifoso del Rosario Central, o sei tifoso del Newell’s, altrimenti non sei nessuno” – e di racconti leggendari che fanno ormai parte integrante dell’iconografia della città, di storie su un fútbol romantico che non c’è più, tramandate nei bar dove si parla, si vive di calcio todo el dia (non è un caso che sia nata proprio qui l’Iglesia Maradoniana).
La leggenda del Trinche
Una di queste leggende è uscita dai confini di Rosario per la prima volta in occasione dello sbarco di Diego Armando Maradona a Rosario – giocherà con la maglia dei Newell’s Old Boys per sette partite – nel 1993. El Pibe de Oro conosce i miti rosarini perché con la Albiceleste ha giocato spesso insieme a Valdano. E così quando durante la conferenza stampa di presentazione i giornalisti locali gli dicono “sei il miglior giocatore della storia di Rosario”, lui risponde senza scomporsi che “il più grande di sempre è vero, aveva giocato a Rosario, ma non sono io. Successe molti anni fa e il suo nome era Tomas El Trinche Carlovich”.
El Trinche – nemmeno lui sa da dove venga questo soprannome e cosa significhi – è l’ultimo dei sette figli di un immigrato croato, arrivato in Argentina durante la crisi del Ventinove. Inizia a giocare nel Rosario Central alla fine degli anni Sessanta, ma come dice di lui Jorge Valdano “si è trovato nel momento sbagliato nel posto giusto”. Nel calcio argentino, all’inizio degli anni Settanta, sono entrati in scena i preparatori atletici, e con loro arriva una nuova moda (figlia anche dei cattivi risultati della nazionale): per il talento non c’è più spazio, bisogna avere dei calciatori ben addestrati fisicamente che siano come dei soldati agli ordini del loro allenatore.
El Trinche – che è tanto talentuoso quanto indolente – scende in campo con le Canallas del Rosario Central per due partite e poi scompare. A ventidue anni pensa di smettere col calcio e ritornare in catena di montaggio, poi, su consiglio di un cognato, decide di fare un provino con il Central Córdoba, la terza squadra di Rosario che gioca nella serie B argentina.
La sua leggenda nasce quando scende per la prima volta sul prato dissestato del Gabino Sosa, lo stadio con la sua curva fantasma dagli anni cinquanta, e diventa – cito ancora una volta Valdano – “parte dell’iconografia della città. Si è trasformato in un simbolo romantico di un tipo di calcio che già non esiste più”.
I racconti della gente
Visto che El Trinche ha giocato solo su campi di seconda e terza divisione, quello che sappiamo di lui lo dobbiamo ai ricordi ed ai racconti della gente. Ed anche se, come ha detto lo stesso giocatore “sono state dette molte cose su di me, ma la maggior parte non sono vere”, vale la pena riportare alcuni di questi racconti.
Si dice che ricevesse un premio per ogni tunnel fatto e per questo fosse discretamente ricco. Una volta la tifoseria gli chiese di farne uno doppio: nacque in questa maniera il doble caño, un tunnel ripetuto due volte in brevissimo tempo, il suo marchio di fabbrica insieme ai rigori senza rincorsa.
Si dice che una volta fu espulso in trasferta dopo un brutto fallo, e che i tifosi abbiano chiesto all’arbitro di rimetterlo in campo perché era l’unica volta all’anno che il Trinche passava di lì. Ogni tanto si faceva buttare fuori alla fine del primo tempo quando ha giocato con il Deportivo Maipù, perché altrimenti rischiava di perdere il treno che lo avrebbe riportato a casa – Maipù è a quasi 1000 km da Rosario.
Si dice che una volta non avesse con sé il documento d’identità, e quindi l’arbitro non fosse in grado di riconoscerlo. Rischiava di non scendere in campo se non fosse intervenuto un dirigente della squadra avversaria dicendo: ”per favore, viene una volta, fammelo giocare, lo riconosco io”.
Si dice che non usasse lo spogliatoio della sua squadra, ma si cambiasse coi magazzinieri. A uno di loro consegnava i suoi scarpini: visto che al Trinche davano fastidio i tacchetti, venivano passati sulla pialla finché non diventavano cortissimi.
Cosa c’è di vero? Secondo El Trinche “Una cosa vera è che non mi è mai piaciuto stare lontano dal mio quartiere, la casa dei miei genitori, il bar dove vado di solito, i miei amici e ‘il Vasco’ Artola”. Un’altra storia documentata è che le strade attorno al Gabino Sosa venivano tappezzate di manifesti con un unico e chiaro messaggio: “Esta noche juega El Trinche”. Il biglietto delle partite del Central Cordoba non aveva lo stesso prezzo perché con “con El Trinche hay un precio, sin hay otro“.
I racconti degli addetti ai lavori
Non c’è solo il racconto del popolo. Anche gli addetti ai lavori hanno la loro parte nella leggenda del Trinche. L’ex-giocatore ed allenatore argentino – oltre che CT della nazionale tra il 2004 ed il 2006 – José Pekerman lo ha definito il più forte di tutti. Per un altro ex-CT, César Luis Menotti “Carlovich è uno di quei bambini il cui unico giocattolo è stata una palla da quando sono nati, vederlo giocare a calcio è stato impressionante”. E ancora “Era il classico giocatore di potrero: gli immigrati, alla fine, non avevano nient’altro che il potrero“.
In Argentina “el potrero” inizialmente era il termine che si utilizzava per il pascolo destinato all’allevamento dei cavalli. Con il tempo, questa parola è stata utilizzata anche per indicare qualsiasi spiazzo in cui un gruppo di ragazzi potesse giocare a calcio.
Secondo Fillol – il portiere dell’Argentina campione del mondo nel 1978 – “Aveva una padronanza della palla e una visione di gioco incredibili. È stato il miglior ‘cinque’ che abbia mai visto”. Tra i fedelissimi del Trinche c’è anche Marcelo Bielsa, che racconterà a Valdano di averlo seguito per quattro anni, tutti i sabati. Per la principale rivista di calcio argentina – El Gráfico – Carlovich “era un centrocampista centrale elegante, virtuoso e in qualche modo stizzoso. Dal ritmo lento, ma con la velocità mentale inversamente proporzionale al suo andamento”. Lo dice anche lui, “Avevo questo dono, qualche secondo prima che mi arrivasse il pallone vedevo già dove l’avrei dovuto mandare, e il tipo che doveva riceverlo era sempre là”.
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