Il racconto della bomba di Hiroshima

Estratto dal libro “Fermiamo Mr. Burns” che ho scritto insieme ad Alberto Zoratti.
6 agosto 1945. In Europa la seconda guerra mondiale era finita. In Asia no. Poco dopo le sette suonò l’allarme aereo su Hiroshima. Un aereo di ricognizione stava solcando il cielo ad altissima quota. Era lo Straight Flush. Inviò la seguente comunicazione: “Stato del cielo a Kokura: coperto. A Yokohama: coperto. A Nagasaki: coperto”, e dopo una pausa “A Hiroshima: quasi sereno. Visibilità dieci miglia, due decimi di copertura alla quota di tredicimila piedi”. Fatto questo sparì all’orizzonte.

Era la condanna di Hiroshima.

Alle 7,30 suonò il cessato allarme. C’era un bel sole, e probabilmente per molti la guerra poteva sembrare qualcosa di remoto. Fino ad allora la città era stata risparmiata dai bombardamenti (e non era stato un caso).
L’Enola Gay – si chiamava così in onore della madre del primo pilota – si trovava a circa 350 chilometri dall’obiettivo. A bordo aveva dodici uomini, solo il primo pilota – il colonnello Paul Tibbets – conosceva i dettagli della missione. Una volta data la rotta si diresse sul retro dell’aereo per parlare con l’equipaggio: “oggi stiamo per lanciare un’arma speciale sull’obiettivo, che è Hiroshima”, “l’esplosione e lo
spostamento d’aria saranno come un inferno. Voi non immaginate quello che state per vedere”. Offrì poi del cianuro ai membri dell’equipaggio nel caso in cui qualcosa fosse andato storto. Soltanto due lo accettarono.
Il capitano William Parsons, aveva innescato Little boy (così era stata ribattezzata al prima bomba atomica)
solo pochi minuti prima, e dopo averle dato un ultimo sguardo si era unito agli altri membri dell’equipaggio.

Poco prima delle otto la stazione radar di Hiroshima registrò il passaggio dell’Enola Gay e degli aerei che lo accompagnavano. Visto che il comando militare giapponese era a corto di carburante, non si alzò in volo neppure un aereo per intercettarli.

Alle 8.09 apparve sotto di loro Hiroshima. “Abbassate gli occhiali”, ordinò il comandante. Alle 8.11 l’aereo si portò ad un’altezza di 9.500 metri. Alle 8.15 e 17 secondi il bombardiere Thomas Ferebee sganciò la bomba su Hiroshima.

Dopo quarantatre secondi, un lampo – alcuni superstiti parlarono dell’accensione di un “secondo sole” – cancellò ogni ombra dalla città. La luce era così intensa da poter accecare istantaneamente una persona che l’avesse guardata direttamente, anche da una distanza di una cinquantina di chilometri.

Alla luce seguì l’esplosione. Solo a più di quaranta chilometri da Hiroshima fu possibile udirne il boato. Per chi era più vicino si trasformò in silenzio. Il calore – centinaia di migliaia di gradi – liquefece i tetti delle case. All’esplosione seguì il “vento nucleare”. A più di mille chilometri all’ora, cancellò ogni segno dell’uomo nel raggio di chilometri. In poco meno di un minuto colmò i quindici chilometri che la dividevano dall’Enola Gay scuotendola con violenza.

Nel cielo il fungo atomico si sollevò rapidamente, raggiungendo un’altitudine di sedici chilometri. Era ancora riconoscibile a più di 700 chilometri di distanza e 90 minuti dopo lo scoppio. Anche Paul Tibbets rimase impressionato dall’esplosione.”Prima vidi formarsi – disse più tardi – un globo di polvere, la città intera tremare come se fosse scossa da un sisma, poi vidi alzarsi il gambo del fungo verso di noi […] era una colonna che saliva velocissima portando su con sé edifici, case, tetti, alberi che volavano come rami presi in una tromba d’aria”.

Come si fa a raccontare una bomba simile? In un battere d’occhio vennero vaporizzate, schiacciate, carbonizzate decine di migliaia di persone. Gli altri hibakusha furono meno fortunati. I primi morirono solo poche ore – o anche pochi minuti – dopo lo scoppio della bomba perché l’alto livello di radiazioni assorbite gli aveva sconvolto il sistema nervoso centrale. La vittima veniva colpita da emicrania, seguita rapidamente da
stato di sonnolenza, profonda letargia e apatia, un tremito diffuso e perdita della coordinazione muscolare; subentrava quindi lo stato di coma, accompagnato da convulsioni. Visto che non esisteva alcun trattamento, l’esito era inevitabilmente fatale.

Altri li seguirono per le lesioni gastro-intestinali, una o due settimane dopo l’esplosione. I sintomi includevano anoressia, nausea, vomito, diarrea emorragica, crampi intestinali, salivazione intensa, disidratazione del corpo e perdita di peso, combinati con sudore, febbre e mal di testa.

La terza piaga arrivò dopo un mese o due per i danni al midollo osseo (il tessuto responsabile della formazione del sangue). La vittima veniva colpita da piccole emorragie cutanee e sanguinamento delle gengive unito a nausea, vomito, diarrea emorragica, accompagnati da grave stato di disidratazione e febbre alta. Si finiva per morire per un’emorragia o perché il corpo era privo di difese immunitarie davanti alle infezioni.

Ogni piaga colpiva una fascia della popolazione più ampia della precedente. E a queste morti “precoci” seguirono due ondate di morti “tardive”. Prima arrivarono i casi di leucemia, che colpirono in particolare i bambini. Proprio quando le morti per leucemia superarono il loro apice, iniziò l’ondata finale: cancro del seno, della tiroide, del polmone, dello stomaco, del fegato, dell’intestino crasso, delle ossa, dell’esofago, dell’intestino tenue, della vescica, del pancreas, del retto e dei tessuti linfatici…

Il 6 agosto del 1945 Hiroshima aveva 255.000 abitanti. 190.000 morirono entro il quinto anniversario della bomba. Hiroshima non pose fine alla guerra perché ai giapponesi non fu lasciato il tempo di capitolare. Il 9 agosto 1945 venne lanciata una seconda bomba atomica su Nagasaki. Esplose a quasi 4 km a nord-ovest dell’epicentro previsto. La bomba cadde nella Valle di Urakami, e questo errore salvò gran parte della città – che era protetta dalle colline.

Il 15 agosto i giapponesi sentirono per la prima volta la voce alla radio del loro imperatore, Hirohito, “il dio vivente”. Disse che la guerra si era sviluppata “non necessariamente in maniera favorevole al Giappone”, e chiese al suo popolo di “sopportare l’insopportabile”. Il 2 settembre 1945, la delegazione giapponese firmò, davanti al generale MacArthur, la resa sulla corazzata Missouri ancorata nel golfo di Tokio. La
Seconda Guerra Mondiale era finalmente finita.

Le responsabilità della bomba

Come scrive il rapporto finale dell’aviazione statunitense sulla guerra nel Pacifico: “All’inizio di maggio del 1945, il Supremo Consiglio di Guerra giapponese aveva iniziato una discussione attiva sulle vie ed i mezzi per finire la guerra, e colloquierano iniziati con l’Unione Sovietica per cercare la sua intercessione come
mediatore”. “Il 20 giugno, l’Imperatore (…) aveva chiesto un incontro con i sei membri per Supremo Consiglio di Guerra ai quali aveva detto che era necessario avere un piano per chiudere la guerra immediatamente, così come un piano per difendere le isole giapponesi”. “I tempi della conferenza di Potsdam interferirono con il piano di inviare il principe Konoye a Mosca come emissario speciale con le istruzioni del Supremo Consiglio di negoziare una pace senza arrivare ad una resa incondizionata, ma con le istruzioni private dell’Imperatore di assicurare la pace ad ogni costo”.

Tre membri del Supremo Consiglio di Guerra, e cioè “il Primo Ministro, il ministro degli Esteri, ed il Ministro della Marina, erano preparati ad accettare una resa senza condizioni, mentre gli altri tre, il ministro della Difesa, e i capi di stato maggiore dell’Esercito e della Marina volevano continuare a resistere per mitigare
le condizioni” di resa, e la loro sola richiesta era il rispetto della persona dell’Imperatore, sacra nella tradizione nipponica. L’ultimatum di Potsdam del 26 luglio 1945, ignorò tale richiesta. Prevedeva l’occupazione militare delle maggiori isole del paese, fino a che non fosse stato possibile “eleggere un governo pacifico e responsabile”, la punizione dei criminali di guerra, il disarmo delle forze armate e il
pagamento delle riparazioni.

Se poi si considera che la campagna di bombardamenti USA aveva distrutto quasi 300 km2 in 67 città, uccidendo più di 300.000 persone e ferite altre 400.000 (e queste cifre escludono il bombardamento atomico di Hiroshima e di Nagasaki), che circa il 30% della popolazione urbana aveva perso la casa e gran parte dei
propri beni, e che l’apporto calorico per abitante era sceso nel 1945 a 1.900 calorie e poi a 1.680 (un’alimentazione sufficiente deve garantire almeno 2.000 calorie al giorno), non è azzardato affermare che “certamente prima del 31 dicembre 1945 e con ogni probabilità prima del 1° novembre 1945 (era la data
prevista per l’Operazione Olympic, ovvero l’invasione del Giappone da parte dell’esercito degli Stati Uniti) i Giapponesi si sarebbero arresi anche se la bomba atomica non fosse stata usata, anche se la Russia non fosse entrata in guerra, e anche se nessuna invasione fosse stata pianificata o contemplata”.

Insomma non era necessario lanciare la bomba per salvare delle vite americane. Come scrisse anche Eisenhower, quando riportò il colloquio nel quale venne informato della decisione di usare la bomba atomica contro il Giappone: “mentre egli esponeva i fatti principali, io mi ero sentito prendere da un senso di
depressione, e così gli manifestai le mie gravi apprensioni, prima di tutto perché secondo me il Giappone era stato già sconfitto ed era assolutamente superfluo sganciare la bomba, e poi perché pensavo che il nostro paese dovesse evitare di sconvolgere l’opinione pubblica con un’arma il cui impiego, a mio avviso, non era più indispensabile per salvare vite americane. Ero convinto che il Giappone, proprio in
quel momento, stesse studiando il modo di arrendersi perdendo il meno possibile
la faccia”.

E allora perché venne lanciata la bomba? Come spiegò il fisico inglese Patrick Blackett, “il lancio delle bombe atomiche, piuttosto che l’ultima azione militare della seconda guerra mondiale è invece stato in realtà la prima grande operazione della guerra fredda diplomatica contro la Russia”. Norman Cousin e Thomas Finletter (quest’ultimo era un uomo dell’establishment USA che fu a capo prima dell’Air Policy Committee e poi del Piano Marshall a Londra) spiegarono senza falsi pudori la scelta compiuta: “si trattava del legittimo esercizio della politica di potenza in un mondo crudele e tempestoso; agendo così, abbiamo evitato una lotta per il controllo effettivo del Giappone, come è avvenuto in Germania e in Italia; infine, se noi non fossimo usciti dalla guerra in netto vantaggio sulla Russia, non avremmo avuto nessuna possibilità di opporci alla sua
espansione”.

Una seconda ragione fu rivelata poi dall’ammiraglio Leahy: “Gli scienziati ed altri volevano sperimentare la bomba, date le enormi somme di denaro che erano state investite nel progetto”. Tanti indizi confermano questo quadro. Il “Target Commitee” dell’esercito stabilì di utilizzare la bomba su obiettivi militari che si trovassero in una estesa area urbana poco toccata dai bombardamenti, in modo da poter calcolare con precisione i danni provocati dalla bomba atomica, ma anche perché “i fattori psicologici nella
scelta dei target sono di grande importanza. Due aspetti di ciò sono (1) ottenere il maggior effetto psicologico contro il Giappone e (2) rendere l’uso iniziale sufficientemente spettacolare in relazione all’importanza dell’arma tanto da essere internazionalmente riconosciuto quando su essa verrà rilasciata”.

L’Enola Gay non era il solo aereo USA nel cielo di Hiroshima il 6 agosto. Ad accompagnarlo c’erano altri due B-29: The Great Artiste e Necessary Evil. Il primo doveva occuparsi di rilevare i dati relativi allo scoppio, mentre il secondo doveva filmare e fotografare quanto avveniva. E dopo la bomba, un distaccamento speciale
dei corpi medici militari – che era stato attivo a Los Alamos durante la costruzione dell’atomica – giunse in forze ad Hiroshima con i primi soldati destinati al presidio della zona, per curare (?) i sopravvissuti, ma anche per effettuare ricerche precise sugli effetti patologici a breve, medio e lungo termine del bombardamento
nucleare. In seguito venne formata una Commissione mista di ricerca nippoamericana di medici e biologi, che nel 1947 si trasformò in un organismo permanente, l’Atomic Bomb Casualty Commission (Commissione sulle vittime della bomba atomica), trasformatasi più tardi nella Radiation Effects Research Foundation (Fondazione per la ricerca sugli effetti delle radiazioni). In entrambe le forme monopolizzò, fino agli anni Cinquanta, a beneficio degli Stati Uniti, le informazioni sugli effetti delle radiazioni sprigionate dalle bombe atomiche (oltre a soffocare la loro diffusione negli Stati Uniti, in Giappone e nel mondo).

Al mosaico manca ancora una tessera. Alla fine del 1946, James Conant, presidente dell’università di Harvard, concepì l’idea di creare l’argomento delle centinaia di migliaia di “vite americane salvate” e, soprattutto, a farlo presentare, in un articolo apparso su Harper, nel febbraio del 1947, dall’uomo che poteva farlo con maggiore credibilità: Henry Stimson, l’ex segretario alla guerra. Dal testo era stato tolto ogni riferimento ai contatti diplomatici relativi alla resa del Giappone. Così facendo si eliminava la questione se la fine della guerra poteva essere ottenuta senza Hiroshima e senza l’invasione, e quello che rimaneva era l’alternativa tra l’uso dell’atomica e un milione di morti americani. Questa cifra tra l’altro rappresentava una seconda mistificazione perché i comandi militari avevano previsto 20.000 morti per l’invasione dell’isola giapponese di Kyushu, e se si fosse rivelato necessario, altri 20.000 morti per un secondo sbarco nelle pianure di Tokyo (che sarebbe dovuto avvenire nel marzo del 1946).

L’articolo si rivelò un successo straordinario: il New York Times non solo lo mise in prima pagina, ma scrisse in un editoriale che “non c’erano dubbi” sul fatto che “la bomba costrinse alla resa i giapponesi”. Washington Post, St. Louis Post-Dispatch, Reader’s Digest e centinaia di altri giornali e riviste lo ripubblicarono. Anche questo era stato accuratamente pianificato, perché l’articolo poteva essere pubblicato senza pagare i diritti all’editore (cosa assolutamente inusuale negli Stati Uniti). Per buona misura, Stimson chiese a Henry Luce, l’editore di Time e di Life, di dare ulteriore diffusione al suo articolo.

Oggi come ieri, ai pochi che non credono alla versione ufficiale dei fatti resta solo la possibilità di citare le osservazioni fatte dal giudice olandese Roling durante il processo di Tokyo ai criminali di guerra giapponesi: “della Seconda guerra mondiale si ricordano soprattutto due cose: le camere a gas tedesche ed i bombardamenti atomici americani”. Oppure le parole giudice indiano Radhabinod Pal, che scrisse: “quando si esaminerà la condotta delle nazioni forse si scoprirà che l’unica legge è quella secondo la quale solo la sconfitta è considerata un crimine… Se qualsiasi distruzione indiscriminata di vite e di proprietà civili è considerata ancora illegittima, durante la guerra del Pacifico, la decisione di usare la bomba atomica è l’unica che si avvicina alla linea di condotta… dei capi nazisti… Niente di simile può invece essere attribuito agli imputati qui presenti” a Tokyo.

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