Queste righe le ho scritte qualche anno fa per un libretto pubblicato dalle Edizioni Missionarie Italiane. Come altre cose che ho scritto sull’economia/finanza, sono ancora attuali…
Difficile non dare torto al grande economista statunitense John Kenneth Galbraith quando ha scritto: “c’è pochissimo in economia che chiami in causa il sovrannaturale. Ma c’è un fenomeno che è stato per molti una tentazione in tal senso. Guardando un foglio rettangolare, spesso di mediocre qualità, che raffigura un eroe nazionale o un monumento o un’immagine classica vagamente ispirata a Pieter Paul Rubens o a Jacques-Louis David o a un mercato di verdura particolarmente ben fornito e stampato con inchiostro verde o marrone, essi si sono posti questa domanda: perché una cosa che in sé è così priva di valore deve essere così evidentemente desiderabile?”.
E questo se ci pensate bene è solo uno degli aspetti che riguardano il denaro a cui non abbiamo mai pensato – anche se lo maneggiamo tutti i giorni.
Che cos’è la moneta?
È un operazione complicata definire la moneta. Uno se la potrebbe cavare scrivendo che la moneta è tutto quello che viene utilizzato come mezzo di pagamento e intermediario negli scambi. Ma perderebbe una parte importante del significato che ha per i suoi utilizzatori.
E allora si potrebbe aggiungere che la moneta per essere tale deve svolgere tre funzioni:
- misura del valore (moneta come unità di conto che misura i prezzi di beni e servizi);
- mezzo di scambio (moneta come strumento di pagamento);
- riserva di valore (moneta come mezzo di risparmio).
Alla definizione della moneta mancano ancora due attributi:
- il suo uso consiste unicamente nella sua cessione, e
- rappresenta un simbolo, riconosciuto ed accettato per una comunità (ma non solo, l’ampio utilizzo del dollaro Usa come valuta di riserva è un simbolo del potere e dell’influenza mondiale degli Stati Uniti).
Il quadro tracciato non vale sempre. Il papiermark – e tutte le monete dei paesi colpiti da iperinflazione – non hanno la funzione di riserva di valore. E non si può dire nemmeno che rappresentino – o abbiano rappresentato – un simbolo per una comunità…
Sia al papiermark che al dollaro si può applicare la risposta che Alfred Marshall, in una nota dei suoi Principles, da alla semplice domanda che cos’è moneta?: “Per quanto mi riguarda, io uso il termine moneta per includervi ogni cosa che passi di mano in mano come un mezzo di acquisto, senza per questo richiedere nessuna conoscenza specialistica o commerciale da parte di coloro che ne fanno uso”.
Dentro l’”ogni cosa” di cui parla Alfred Marshall c’è la moneta e molto altro: gli assegni bancari e circolari, le carte di credito, i bonifici, il bancomat e le tessere multifunzione…
L’elenco potrebbe continuare ancora a lungo, e per questo gli economisti sono soliti raggruppare la moneta e i suoi simili nei cosiddetti “aggregati monetari“. Si tratta di insiemi di attività patrimoniali caratterizzati da un grado via via decrescente di liquidità, e rappresentati dalle sigle M0, M1, M2 ed M3.
- M0 (o base monetaria): comprende le banconote e le monete metalliche – la cosiddetta moneta legale – più le passività della banca centrale verso le banche;
- M1 (o liquidità primaria): comprende le banconote e le monete in circolazione più i depositi a vista – come il classico conto corrente;
- M2 (o liquidità secondaria): comprende M1 più i depositi con durata prestabilita fino a due anni e i depositi rimborsabili con preavviso fino a tre mesi;
- M3: comprende M2 più attività finanziarie come i pronti contro termine, le obbligazione con scadenza inferiore ai due anni, i titoli pubblici a breve termine (come i BOT italiani), e le quote di fondi di investimento monetario.
La Banca Centrale, con i suoi interventi di politica monetaria agisce soprattutto sull’aggregato M0 (base monetaria), con ricadute anche sugli altri aggregati monetari.
Nell’area Euro, il circolante era pari a 844,2 miliardi di euro nel 2011, 864 nel 2012, e a 869,1/879,3 miliardi nei primi due trimestri del 2013. L’aggregato M3 invece era pari a 8.605,6 miliardi nel 2011, 8.990,3 nel 2012, e 9.089,8/9.130,6 miliardi nei primi due trimestri del 2013.
La moneta bancaria e la riserva frazionaria
Insomma, accanto alla moneta contante – rappresentata da banconote e monete metalliche – c’è anche la “moneta bancaria” che si basa su strumenti gestiti e organizzati dalle banche: come gli assegni, i bonifici, gli addebiti preautorizzati, le carte di debito, le carte di credito, le carte prepagate…
L’uso di tali forme di pagamento diverse dal contante è reso possibile da due elementi: il possesso di un c/c bancario, e la rete informatica che collega tutte le banche con tutta una serie di regole e di procedure che consentono la generale accettazione della moneta bancaria per i pagamenti.
Le banche centrali controllano l’emissione della moneta bancaria ed il moltiplicatore monetario agendo sulle riserve obbligatorie.
Secondo gli economisti classici – l’effetto di moltiplicazione dei depositi si spiega con il processo circolare che si innesca tra banche e loro clienti: questi ultimi depositano la liquidità presso gli istituti di credito, che a loro volta, la ridistribuiscono al pubblico sotto forma di prestiti o acquisto di titoli e si riparte da capo.
Per esempio, supponiamo che Tizio versi 100 euro sul suo c/c nella banca A. Questo istituto di credito dopo aver destinato due euro alla riserva obbligatoria, presterà 98 euro a Caio, che con tali soldi acquisterà dei beni di Sempronio. Egli li verserà sul suo conto corrente presso la banca B, che come l’altro istituto di credito, dopo aver destinato il 2% alla riserva obbligatoria, presterà il resto. E così via, fino a quando non c’è più nulla da prestare.
Riassumiamo i vari passaggi in una tabella :
Raccolta | Riserve | Impieghi | |
Banca A | 100 | 2 | 98 |
Banca B | 98 | 1,96 | 96,04 |
Banca C | 96,04 | 1,9208 | 94,1192 |
Banca D | 94,1192 | 1,882384 | 92,236816 |
… | |||
Totali | 5000 | 100 | 4900 |
Alla fine la moneta bancaria complessivamente creata sarà 49 volte il deposito iniziale e, aggiungendosi ad esso, la moneta complessiva arriverà ad essere 50 volte il deposito iniziale (nel nostro caso quindi 5000 euro). Il moltiplicatore monetario è 50 (ovvero 1/0,02), e si riduce con l’aumento della riserva obbligatoria – diventa quindi pari a 20 se aumenta al 5%, e a 10 se si arriva al 10%.
L’esempio citato è frutto di una eccessiva semplificazione della realtà. Il valore effettivo del moltiplicatore dei depositi è influenzato, oltre che dal coefficiente di riserva obbligatoria, anche dal quoziente di drenaggio di circolante (ovvero dalla propensione del pubblico a detenere moneta in forma liquida), e dalle riserve libere che normalmente le banche detengono.
Ma da sola questa spiegazione non basta per giustificare il rapporto tra la base monetaria (M0) e liquidità primaria (M 1) nella zona Euro calcolato dalla Banca centrale europea. Alla fine del 2011 il rapporto era di 844,2 a 4.803,1 miliardi di euro nel 2011 (1 a 5,7) e di 864 a 5.105,4 miliardi nel 2012 (1 a 5,9).
Il moltiplicatore dei depositi non riesce nemmeno a spiegare perché, dopo la crisi del 2008, l’enorme liquidità rovesciata nel sistema finanziario dalla Bce non abbia evitato il verificarsi di una stretta nel credito – il famigerato “credit crunch”.
Per questo sembra corretto avanzare l’ipotesi opposta: la massa monetaria non dipende dall’offerta di moneta sotto il controllo della banca centrale, ma dalla domanda di moneta da parte dell’economia e dalla “propensione al prestito” – o meglio al rischio – delle banche.
Se così è, allora un’eventuale crescita dell’offerta di moneta da parte delle banche centrali (base monetaria) che vada oltre la domanda da parte dell’economia, ad esempio attraverso i cosiddetti “quantitative easing” (l’acquisto di grandi quantità di titoli da parte delle banche centrali in cambio di nuovo denaro), non dovrebbe causare né un sensibile aumento della quantità complessiva di moneta né un corrispettivo aumento dell’inflazione.
Forex e derivati
Negli anni Ottanta e Novanta, le liberalizzazioni e le deregolamentazioni hanno fatto cadere ogni limite alla creazione di moneta. Su questo tema, i dati sugli aggregati monetari non ci dicono abbastanza. Per capire meglio gli effetti di questa alluvione monetaria dobbiamo introdurre ancora un trio di attori presenti sui mercati finanziario.
Il Forex (FOReign EXchange) è il termine con cui comunemente si indica il mercato internazionale dei cambi. Più dell’80% delle sue transazioni avvengono al di fuori delle borse, su un mercato virtuale e non regolamentato – in inglese viene definito Over the counter (Otc) – aperto 24 ore su 24 dal lunedì al venerdì, in cui le negoziazioni avvengono tra due parti, senza il filtro di un intermediario. Ad esempio, se Intesa SanPaolo compra dollari in cambio di euro da Citybank, il contratto interessa solo quelle due banche, e ciascuno dei due contraenti si assume il rischio della possibile inadempienza dell’altro.
Secondo le stime della Banca dei regolamenti internazionali (Bri), il volume giornaliero delle transazioni in valuta – che nel 1977 era pari a 18,3 miliardi di dollari – è passato a 820 miliardi di dollari nel 1992, a 1.230 miliardi di dollari nel 1995 e a circa 1.500 miliardi di dollari nel 1998.
Una crescita continua fino al settembre 2008, quando il mercato raggiunge il volume giornaliero di 4.500 miliardi di dollari al giorno. A seguito del fallimento della Lehman Brothers, l’attività sul mercato è scesa fino a raggiungere il volume giornaliero di 3.000 miliardi di dollari al giorno nell’aprile 2009 – ed è ritornata ai 4,5 trilioni giornalieri all’inizio del 2011.
Gli ultimi dati risalgono all’aprile 2013 e rappresentano un nuovo record: 5,3 trilioni di dollari. Ogni 14 giorni sul mercato dei cambi si scambia l’equivalente del Pil mondiale (che secondo la banca Mondiale, nel 2012, è stato pari a 71.666,35 miliardi di dollari)
Un derivato – per chi non lo conosce − è uno strumento finanziario il cui prezzo
deriva dal valore di mercato di azioni, indici azionari, valute, tassi, materie prime…
Questi strumenti vengono utilizzati per assicurarsi contro un rischio – di cambio o di aumento di un tasso di interesse… – oppure per speculare su una materia prima, un tasso di interesse, la bancarotta di un paese…
Per capire, anche in questo caso, la speculazione dall’economia reale, basta confrontare qualche dato. Nel 1987, il Pil mondiale era pari a 16.162 miliardi di dollari, mentre i derivati erano pari a 866 milioni di dollari – ovvero il 5,35% del Pil. Nel 2000 il Pil mondiale era pari a 32.216 miliardi di dollari, mentre i derivati ammontavano già a 63.009 miliardi, ossia il 195,5% del Pil. Nel 2012, il Pil mondiale era pari a 71.666,35 miliardi di dollari mentre i derivati rappresentavano 1.568.532,7 miliardi – ovvero circa 21,88 volte il Pil.
C’è infine il sistema bancario ombra o Shadow banking per dirla all’inglese. Un sistema formato da fondi di varia natura che raccoglie risparmi in tutto il mondo e li gestisce nei modi più disparati, purché garantiscano il più alto utile possibile nel più breve tempo possibile.
Come spiega la Banca dei Regolamenti Internazionali, l’attività dello Shadow Banking può “amplificare i cicli finanziari, perché tende a crescere durante i
boom e a contrarsi durante i momenti recessivi”, questo perché “durante i boom, il sistema bancario ombra facilita l’aumento della leva finanziaria” creando “squilibri di liquidità e contribuendo così alla formazione di situazioni di vulnerabilità”.
È difficile capire l’ampiezza dello Shadow Banking. Secondo i dati raccolti dal Financial Stability Board, le attività finanziarie detenute dai soggetti appartenenti a questo sistema è passato dai 26.000 miliardi di dollari del 2002, ai 67.000 miliardi di dollari nel 2011 (più o meno la metà del sistema bancario ufficiale).
La finanza d’azzardo
Con la fine degli accordi di Bretton Woods, il valore di una moneta non è più collegato direttamente o indirettamente a una quantità di oro. Tutto dipende dal “libero” gioco della domanda e dell’offerta.
Con la fine del regime di cambi fissi, le crisi si sono moltiplicate: bolla immobiliare Usa (1979), crisi del debito messicano (1982), Bancarotta banche locali Usa (1985), crack di Wall Street (1987), nuova bolla immobiliare negli Stati Uniti (1989)…
La moltiplicazione dei denari di cui abbiamo parlato, finiscono per alimentare ancor di più questa meccanica fatta di instabilità e bolle finanziarie.
E quindi di nuovo Messico (1994), Asia (1997), salvataggio del fondo Long Term Capital Management (1998), crisi in Brasile e Russia (1998), bolla della new economy (2000), crisi Argentina (2001), fallimenti di Enron e Worldcom (2002), Mutui Subprime (2007), fallimento di Lehman Brothers (2008), Crisi Grecia (2010), Crisi debiti sovrani (2011)…
Tra il 1975 ed il 1998, l’Fmi ha contato la bellezza di 212 crisi, con un aumento della frequenza dopo il 1987 a causa della “liberalizzazione finanziaria che ha preso piede proprio in quegli anni”. Secondo il finanziere George Soros, “senza l’intervento delle autorità monetarie il sistema finanziario internazionale sarebbe crollato in almeno quattro occasioni: nel 1982, nel 1987, nel 1994 e nel 1997” – e come abbiamo visto è arrivato ad un passo da un crollo rovinoso soprattutto nel 2008.
L’evento che secondo il secondo il senso comune ha dato il via alla crisi nel 2007 sono i mutui subprime – ovvero i mutui concessi a chi viene considerato ad alto rischio di insolvenza – e la loro cartolarizzazione – ovvero la loro trasformazione in prodotti finanziari.
Queste obbligazioni ad alto rischio di insolvenza che le agenzia di rating promuove con la tripla A – il voto massimo – da sole avrebbero rappresentato un problema limitato. Il problema vero era rappresentato dal gran numero di strumenti finanziari ad altissimo grado di complessità, che uniti ai derivati negoziati privatamente, hanno reso opache le attività e passività degli attori finanziari.
I dubbi sui bilanci bancari – e non solo – sono giustificati, a marzo del 2008 arriva il buco della Bear Stearns – riassorbita poi dalla Jp Morgan. A settembre arriva la nazionalizzazione dei giganti dei mutui Fannie Mae e Freddie Mac – un’operazione da almeno 200 miliardi di dollari. A stretto giro di posta arriva il fallimento della Lehman Brothers, oltre al salvataggio di Merrill Lynch, Countrywide, Wachovia Bank e Washington Mutual, e infine tocca al colosso assicurativo Aig.
Gli Stati Uniti si muovono come un Corporate Welfare, ovvero uno stato sociale che riserva le sue prestazioni ai poteri forti della finanza. Per cercare di turare qualche falla, l’allora presidente Bush vara un piano da 700 miliardi di dollari. Il debito pubblico accumulato dagli Stati Uniti a causa della War on Terror è già pari al 40% del Pil Usa, e il piano lo fa lievitare al 70%.
Secondo R&S Mediobanca, i contribuenti dei diversi Stati hanno versato tra il 2007 ed il 2011, 4.700 miliardi di euro per il salvataggio delle Banche d’Europa e degli Stati Uniti. In Europa gli interventi pubblici sono stati pari al 37% del Pil, in Italia sono arrivati al 5,5% della ricchezza nazionale.
La finanza padrona
Arriviamo così alla cosiddetta crisi dei debiti sovrani. La finanza, dopo aver creato la crisi, essere stata salvata in buona parte grazie ai soldi pubblici, non aver fatto ordine nei suoi conti, ora usa il denaro ricevuto dalle banche centrali per attaccare i paesi maggiormente indebitati.
Il meccanismo della speculazione funziona così: alcune grandi società finanziarie iniziano a vendere i titoli di stato di alcuni paesi. Il motivo? Questi paesi corrono il rischio di avere difficoltà di finanziamento.
Con perfetto tempismo le agenzie di rating confermano questi giudizi. I titoli sotto esame iniziano a deprezzarsi, e si prevedono scenari ancora più foschi per il futuro.
I tassi d’interesse per le emissioni di nuovi titoli iniziano a crescere, ampliando il differen ziale – il famigerato spread – con l’interesse sui titoli di stato considerati più sicuri – il riferimento classico sono i Bund tedeschi. Tale tendenza si autoalimenta sino a creare un’emergenza che obbliga la Banca centrale europea ad intervenire comprando i titoli di stato, e in cambio impone misure economiche drastiche volte a ridurre il deficit pubblico. È il segno che la speculazione ha vinto.
In contemporanea, il valore dei titoli derivati che assicurano i titoli di stato – sono i Credit Default Swaps o Cds – aumenta notevolmente. Ciò consente ai possessori dei Cds di poter lucrare elevate plusvalenze. Miliardi di euro che vanno a finire soprattutto nelle tasche di poche istituzioni finanziarie.
Nel mercato bancario, dal 1980 al 2005 si sono verificate circa 11.500 fusioni, una media di 440 all’anno, riducendo in tal modo il numero delle banche a meno di 7.500. Alla fine il mercato finanziario è essenzialmente controllato da cinque banche d’affari – Jp Morgan, Bank of America, Citybank, Goldman Sachs, Hsbc Usa – e cinque istituti di credito – Deutsche Bank, Ubs, Credit Suisse, Citycorp-Merrill Lynch, Bnp-Paribas. Tanto per fare un esempio, insieme detengono il controllo di oltre il 90% dei titoli derivati.
I cosiddetti mercati, presentati ideologicamente come entità metafisica, neutra e quindi oggettiva, non sono altro che espressione di un preciso potere. Che guadagna denaro sulle spalle di milioni di cittadini.
Il peso della speculazione nel 2012 è costata agli italiani una maggiore fattura per interessi pari a 12,4 miliardi a carico del bilancio pubblico, a cui c’è da aggiungere l’aumento della fattura bancaria per le famiglie − 12,1 miliardi − e le imprese: 23,7. La speculazione ha pure causato una riduzione del Pil pari allo 0,9% e la perdita di quasi 150.000 posti di lavoro.
Non si tratta di un caso isolato. I derivati hanno contribuito, spesso in maniera determinante, all’aumento dell’instabilità del prezzo delle attività sottostanti da cui il loro valore “deriva” − e non c’è aspetto della vita che non possa essere oggetto di una scommessa al Chicago Board of Trade, o al New York Mercantile Exchange: bestiame (vivo e congelato), legna, fertilizzanti…
In tutto il mondo, centinaia di milioni di famiglie hanno subito una riduzione del tenore di vita per il rincaro dei carburanti, del riso, del grano, della soia. L’andamento dei cambi può dimezzare il valore di un raccolto subito dopo la semina, o mettere fuori mercato un esportatore. E un aumento dei tassi d’interesse può far aumentare in misura fatale il costo del magazzino di un commerciante.
Il trionfo del monetarismo
Al puzzle mancano ancora due tessere. Nell’agosto del 1979, Paul Volcker arriva alla guida della Federal Reserve. Come tutti gli economisti monetaristi, sostiene l’importanza della quantità di moneta nel determinare il livello di attività reale dell’economia nel breve periodo e l’inflazione nel lungo periodo. Lo scarso sviluppo dell’economia Usa sarebbe il prodotto di un eccesso di dollari in circolazione e per questo aumenta i tassi di interesse Usa. Sulla sua scia aumentano anche i tassi d’interesse internazionali, che passano da una media del 7,5% alla metà degli anni settanta, al 20% nel 1981 e al 16% nel 1982.
Nel gennaio del 1981, l’arrivo di Ronald Reagan alla presidenza conferma e amplifica questa evoluzione. Gli USA iniziano una costosissima corsa al riarmo – 2.481 miliardi spesi tra il 1981 ed il 1990 – che non viene finanziata aumentando le tasse, ma ricorrendo ai capitali esteri, che vengono attirati da un rendimento più elevato.
Più o meno nello stesso periodo, l’allora governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi e l’allora ministro del Tesoro Beniamino Andreatta, decidono di far divorziare la Banca d’Italia dal Tesoro.
La nostra banca centrale non è più intervenuta da allora nell’acquisto di titoli di Stato. La scelta ha contribuito certo a ridurre il tasso di inflazione a doppia cifra che ha colpito il nostro paese praticamente dallo scoppio delle crisi petrolifera, ma ha anche aperto il baratro del debito pubblico: tra il 1981 ed il 1993 il rapporto debito/Pil è passato dal 60 al 120%.
Questa crescita non è stata un effetto dell’impennata della spesa dello Stato: nel 1984 l’Italia spende – al netto degli interessi sul debito – il 42,1% del Pil. Dieci anni dopo siamo al 42,9%. Nello stesso periodo la media dell’Unione Europea passa dal 45,5 al 46,6%. La crescita del debito pubblico è stata l’effetto soprattutto della spesa per interessi, passata dall’8 all’11,4% – contro una media dell’Ue che nello stesso periodo passa dal 4,1 al 4,4% (nel 1993 si è arrivati al 13% italiano contro il 4,3% dell’Unione europea).
E’ stato il risultato del libero gioco della domanda e dell’offerta: una volta sparita una componente importante della prima – quella della banca centrale -, il prezzo, rappresentato dal tasso, è ovviamente schizzato verso l’alto, con il risultato di far esplodere il debito totale.
Gli interessi, oltre ad accrescere le uscite e quindi il debito, rappresentano una redistribuzione alla rovescia: concentrano nelle tasche di pochi la ricchezza di molti…
La finanza perde la sua funzione
La finanza, in un mondo normale, dovrebbe avere l’obiettivo di trasformare la ricchezza prodotta e non consumata − dalle famiglie, da imprese e da altri soggetti privati e pubblici − in investimenti per la produzione, distribuzione e commercializzazione di beni e servizi. Questo ruolo di supporto all’economia reale oggi non esiste più. Anzi, oggi l’economia reale è subordinata alle logiche dell’economia finanziaria. La redditività finanziaria a breve termine è diventata per tutti l’obiettivo da raggiungere, il criterio di scelta di un investimento e il parametro di valutazione di ogni prestazione economica.
L’ossessione finanziaria non si è limitata agli aspetti che abbiamo descritto finora. L’imperativo di ogni azienda è diventato la creazione di valore – finanziario – dirottando verso la sfera finanziaria capitali che invece dovrebbero alimentare l’economia reale. Tutto questo ha prodotto un’enfasi eccessiva sulla riduzione – chiamato eufemisticamente contenimento – dei costi; peccato che sia spesso difficile – diciamo pure impossibile – fare meglio, più in fretta e con meno spesa.
Anche la disoccupazione finisce nella tagliola della finanza. Se è troppo bassa potrebbe rivelarsi un male, perché potrebbe spingere in alto gli stipendi e portare poi inflazione. È molto meglio se i lavoratori vengono pagati poco.