Media e guerra in Iraq

Questo brano fa parte di un libretto che avevo scritto dopo l’invasione dell’Iraq nel 2003. Molte cose sono assolutamente attuali…

Il 12 settembre 2002, George W. Bush presenta davanti al consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite un rapporto dal titolo “Un decennio di menzogne e di accuse” che accusa il regime di Saddam Hussein. L’Iraq intrattiene stretti legami con Al Qaeda e minaccia la sicurezza del mondo intero perché possiede “armi di istruzione di massa” – un’espressione terrificante inventata da qualche consigliere per la comunicazione. 

Qualche giorno dopo queste accuse vengono riprese dal fedele alleato Tony Blair. Davanti alla Camera dei comuni afferma che “L’Iraq possiede armi chimiche e biologiche. (…) I suoi missili possono essere lanciati in 45 minuti”. Nel suo intervento davanti al Consiglio di sicurezza, il segretario di Stato USA, Colin Powell, si spinge più in là, dichiarando che “Saddam Hussein ha intrapreso ricerche su dozzine d’agenti biologici provocanti malattie come la cancrena gassosa, la peste, il tifo, il colera, il vaiolo e la febbre emoraggica”. Man mano che la guerra si avvicina le accuse si fanno sempre più pesanti: “Crediamo che Saddam Hussein abbia ricostituito delle armi nucleari”, sostiene il vice-presidente Cheney alla vigilia della guerra nel marzo 2003.

Le accuse vengono riprese fino alla nausea e amplificate dai grandi media, trasformati per l’occasione in organi di propaganda, oltre che dagli alleati minori. Il 30 gennaio, Aznar redige una dichiarazione di sostegno agli Stati Uniti, la “Lettera degli Otto”, firmata tra gli altri da Silvio Berlusconi e Vaclav Havel, dove si afferma che “il regime iracheno e le sue armi di distruzione di massa rappresentano una minaccia per la sicurezza mondiale”. 

Oggi sappiamo che era tutto falso. In un intervista a Vanity Fair, pubblicata il 30 maggio,  Paul Wolfowitz – uno degli uomini di punta dell’amministrazione USA – ha riconosciuto la menzogna di Stato. Ha ammesso che la decisione di usare la minaccia delle armi di distruzione di massa per giustificare una guerra preventiva contro l’Iraq è stata adottata “per ragioni burocratiche”. “Ci siamo intesi su un punto, le armi di distruzione di massa, perché era il solo argomento sul quali tutti potevano essere d’accordo”.

Ma al di là delle parole, valgono i fatti. Dopo mesi di ricerche non è stata trovata traccia di armi chimiche, biologiche o nucleari. E ai falchi neoconservatori non resta che arrampicarsi sugli specchi. Rumsfeld come Wolfowitz insistono sul punto che le armi di distruzione di massa non sono state trovate solo perché Saddam le ha nascoste. I fatto che i servizi segreti non abbiano diffuso serie informative in proposito è dovuto soltanto alla furbizia del nemico. 

Dice Wolfowitz al Council for Foreign Relations di New York il 23 gennaio 2003: “Pensateci un attimo. Quando un revisore contabile scopre discrepanze in un libro, non è suo compito provare dove il truffatore abbia nascosto i soldi. È obbligo della persona o dell’istituzione essere ascoltata spiegare la discrepanza”. Insomma come lo stesso Wolfowitz spiega: “Mentire è più di una tecnica. Era, e rimane, politica”.

Notizie a senso unico

Ci hanno raccontato delle storie. Ma nessun direttore è comparso sul video o ha scritto ai suoi lettori per chiedere scusa. Anzi. 

Perché? Come scrive Alex Zanotelli, “Una cosa è certa: i mass media sono nella stragrande maggioranza dei casi parte integrante del sistema economico-finanziario-militarizzato. (…) Questi centri di potere mediatico forniscono informazioni in un senso quasi sempre favorevole all’ordine sociale costituito”.

Gli fa eco Giulietto Chiesa: “la comunicazione è fuorviante, e offre a miliardi di persone che non hanno nessun sistema di difesa un mucchio di menzogne. Vivono in una specie di sogno permanente che non fa capire come noi oggi stiamo vivendo, che non fa comprendere i nostri drammi, i drammi che il nostro pianeta sta vivendo. Miliardi di persone non sanno che noi stiamo andando verso il baratro.”  

“Bisogna chiedersi perché? Perché accade questo? E la risposta è semplice, poiché il sistema della comunicazione è nelle mani dei grandi gruppi di potere del pianeta che non vogliono minimamente far sapere qual è lo stato delle cose”.

“I mass-media sono la voce del padrone e servono essenzialmente a due scopi. Primo, ideologico: creano in noi l’illusione che questo è l’unico Sistema possibile. Secondo: servono a renderci tubi digerenti. Produciamo? Dobbiamo consumare. Ci fanno consumare!”. 

Un esempio

L’organizzazione di analisi e di critica dei media Fairness & Accuracy in Reporting (FAIR) ha analizzato due settimane di informazione Usa a cavallo dell’intervento di Powell alle Nazioni Unite – il 4 febbraio 2003. E il risultato dimostra quanto l’informazione sia a senso unico: 68 dei 393 invitati – il 17% – scelti dai grandi canali televisivi americani era critica verso la politica della Casa Bianca. Il pluralismo negli USA esiste perché questa media comprende canali come la NBC – proprietà di General Electric, uno dei fornitori dell’esercito americano -, che ha concesso agli avversari della guerra solo il 14% delle interviste e delle spiegazioni, mentre la PBS gli ha concesso addirittura il 21% degli inviti!

I nuovi imperatori dei media

“Trecento società dominano il mercato dell’informazione. Di queste società 144 appartengono all’America del Nord, 80 all’Europa, 49 al Giappone, e 27 al resto del mondo. 4 agenzie tra queste trecento gestiscono l’80% del flusso delle notizie: sono le americane Associated Press e United Press International, la britannica Reuter e la francese France Press. La quasi totalità delle informazioni del Sud del mondo passa attraverso queste grandi agenzie di stampa prima di raggiungere i nostri giornali e i nostri Tg”.

E il potere sui media si sta concentrando sempre più. Negli Stati Uniti, che nel febbraio 2002 hanno abolito le regole anti-trust nel settore audiovisivo, America On Line ha acquistato Netscape, il settimanale Time, la casa di produzione hollywoodiana Warner Bros e il canale d’informazione CNN. La General Electric, prima impresa mondiale in termini di capitalizzazione in borsa, è proprietaria della rete televisiva NBC. La News Corporation di Rupert Murdoch ha assunto il controllo di alcuni dei più diffusi giornali britannici e americani (The Times, The Sun, The New York Post), e possiede una rete televisiva via satellite (BskyB), uno dei canali televisivi degli Stati uniti (Fox), nonché un’importantissima società produttrice di serie televisive e di film (20th Century-Fox). E poi c’è la Disney, che ha  acquistato la rete televisiva ABC.

Dieci grandi imprese dominano il mercato dei media in USA. Eppure per la Federal Communications Commission (FCC) – è l’organismo che fissa le regole per i media – afferma che le grandi imprese soffrirebbero per i vincoli eccessivi. Per questo forse ha regalato a canali televisivi come CBS, NBC, Fox, e ABC le frequenze per trasmettere i programmi ad alta definizione. Un dono che è stato valutato nell’ordine dei 300 miliardi di dollari.

Miracoli dell’attività di lobbying: tra il 1993 e il giugno del 2000, l’industria dei media USA ha speso 75 milioni di dollari per finanziare le campagne elettorali di candidati democratici e repubblicani, e ha offerto, tra il 1995 e il 2000, 1.460 viaggi ai componenti della FCC. 

La situazione in Europa non è certo migliore. Bertelsmann, primo editore mondiale, ha acquistato l’RTL Group, e in Francia ha ormai assunto il controllo della radio RTL e del canale generalista M6. In Spagna, la società Prisa controlla il quotidiano El País, la rete radiofonica Ser, il canale criptato Canal Plus España e il più importante gruppo editoriale. 

In Francia, lo smantellamento della Vivendi Universal Publishing (VUP) ha provocato un vero e proprio sconvolgimento. Il gruppo Dassault, che già controlla Le Figaro e numerosi giornali regionali, ha potuto acquisire il settimanale L’Express, la rivista L’Expansion e altre 14 testate. Il primo editore francese (Hachette, Fayard, Grasset, Stock…) , il gruppo Lagardère – vicino a Jacques Chirac -, possedeva già alcuni giornali regionali (Nice Matin, La Provence) e dominava il settore dei rotocalchi (Paris Match, Elle, Télé 7 jours, Pariscope…), ma ora non nasconde più l’ambizione di fagocitare Canal Plus e l’emittente pubblica francese France 2. Questi due gruppi hanno in comune anche l’inquietante caratteristica di essersi costituiti intorno a una società centrale, la cui attività principale è nel campo militare (caccia, elicotteri, missili, razzi, satelliti).

E che dire dell’Italia, dove Silvio Berlusconi possiede i tre principali canali privati italiani e, in quanto presidente del consiglio, ha il controllo di tutte le reti pubbliche, mentre tre gruppi editoriali si dividono il 90% della carta stampata del paese (Rizzoli/Corriere della Sera, Gruppo l’Espresso e Mondatori/Fininvest)?

Una sola legge: il rendimento

La maggior parte dei media d’informazione sono ormai diretti da manager interessati solo ai profitti ed alla quotazione in borsa del loro titolo. 

“La notizia non è più l’informazione da trasmettere ai lettori, agli ascoltatori, ai telespettatori, ma un prodotto di consumo, una merce da piazzare sul mercato. Il suo contenuto di verità non è più un pregio, bensì la sua capacità di produrre profitto (…). Questa inquietante realtà della comunicazione (giornalistica, pubblicitaria, di evasione) sta distruggendo, fra l’altro, ogni forma di etica e di deontologia professionale, trasformando tutto e tutti in macchine che producono profitti”. 

Per ridurre i costi, i media tagliano il numero dei giornalisti e ricercano professionisti in grado di fornire contenuti adatti ai differenti supporti, perché i conglomerati che raggruppano attività su Internet, televisioni e giornali praticano correntemente il “copia-incolla” da un media all’altro. Così si finisce per lavorare anche sedici ore al giorno e manca il tempo per verificare le notizie e per realizzare un prodotto di qualità. 

E poi c’è l’effetto concentrazione, che scoraggia i giornalisti appartenenti a dei conglomerati ad informare in maniera critica sui loro proprietari. Preferiranno parlare del nuovo film lanciato da una delle filiali delle loro imprese piuttosto che impegnarsi in un’inchiesta sui pericoli del nucleare, quando, per esempio, la loro casa madre ha interessi in questo campo. 

Ma il discorso vale anche per gli altri giornalisti. Oggi la pubblicità rappresenta la metà delle entrate di un giornale. Non parliamo nemmeno di quanto rappresenti questa voce in un bilancio di una rete televisiva commerciale. Perdere un contratto pubblicitario quindi può costare molto più che un calo di vendite, o una riduzione  dell’ audience.

Infine, come scrive Ramonet nel suo La tirannia della comunicazione, c’è “un piccolo gruppo di giornalisti onnipresenti”, che “impone la sua definizione dell’informazione mercificata a dei professionisti sempre più indeboliti dal timore della disoccupazione”.

Un piccolo gruppo che ricopre incarichi di vertice su stampa, radio e televisioni, e contemporaneamente ha incarichi di consulenza molto ben remunerati – come se ne avessero bisogno – con diverse aziende, scrive bestseller pubblicizzati su tutti i media, e spesso si ritrova pure tra i componenti dei consigli di amministrazione.

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